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Margherita Valori

A CENA CON MIO PADRE
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Credo che tutto sia iniziato una sera di tre o quattro anni fa, una serata che trascorsi a cena con mio padre e durante la quale si parlò di tantissime cose.

Ricordo che gli confidai di avere delle intenzioni "letterarie", gli dissi dei racconti che stavo tentando di scrivere e del mio problema a non riuscire a fare a meno di dilungarmi sulle sfaccettature psicologiche di tutti i personaggi che inventavo, cosa che mi portava ad "allungare il brodo" in maniera spaventosa con estesissimi periodi e infinite divagazioni.

Questo desiderio di scandagliare ogni piccola profondità facente parte della complessità umana, di analizzare psicologicamente ogni gesto o espressione, di descrivere puntigliosamente e pomposamente ogni ambiente lo trovava comune, mi disse, con uno scrittore di cui fino a quel momento avevo solo sentito parlare: Marcel Proust.

Mi ripromisi di leggere qualcosa di suo, ma il vero e proprio contatto si verificò solo un paio di anni dopo quando, sotto consiglio di un ispiratore intellettuale, mi dedicai alla lettura di "Un amore di Swann"

Era l'ultimo anno del liceo (linguistico per la precisione) e anche in letteratura francese ci accingemmo ad affrontare questo complicato e verboso scrittore da cui molti si guardano, specie per la scoraggiante estensione della sua opera...

La professoressa si compiacque della lettura che stavo facendo e mi propose, vista la passione progressiva che si accendeva in me ad ogni pagina letta, di specializzarmi nell' analisi delle sue problematiche, della sua sintassi, della sua filosofia (la particolare concezione del tempo).

Per farla breve: mi prodigai in lunghe dissertazioni in classe a proposito dell' episodio della petite madeleine, nonché del bacio della buonanotte mancato e della sua maniera di concepire la Recherche (un'imponente "cattedrale").

Lessi un saggio critico su Proust estrapolato dagli Etudes sur le temps humain e ne feci argomento d'esame alla maturità.

Conclusa l'esperienza scolastica, la mia storia prosegue con la difficoltà di acquistare l'intera opera proustiana (problemi pecuniari) nonché di leggerla (problemi "temporali") ma con l'ancora ben forte desiderio di saperne di più.

Grazie ad Internet approdo ad un sito italiano che si occupa dell'amato scrittore

La fortuna è dalla mia parte quando scopro, proprio visitando questo sito, che la data del mio sospirato viaggio a Parigi coincide con la mostra alla Bibliothèque nationale de France intitolata "Marcel Proust, l' écriture et les arts"..

Ed eccomi là, davanti all'orribile e mastodontica nuova biblioteca Mitterand, un po' emozionata... il primo vero e proprio contatto con Marcel Proust in loco.

 La BnF, foto notturna


L'atmosfera è soffusa... dà sul rosso sangue, un po' velata, senz'altro intima. I cimeli proustiani sono raccolti con attento rispetto e come prima cosa mi ritrovo davanti al suo più famoso ritratto.

L'uomo lì rappresentato è una creatura fragile, un po' effeminata, pallida, coi baffi spettinati ma esteticamente compunto... Ed è questo il Proust riflessivo, divorato dall'asma, debole, tutto sommato insoddisfatto, vuoto di qualcosa, depositario di una sensibilità immensa che gli consente una maniera di rapportarsi alla realtà dalle "mille sfaccettature", tutta proustiana.

ritratto di Blanche


Ma scopro che Proust non è solo questo. Sparse per la mostra ci sono sue fotografie ingrandite che, invece, descrivono un uomo dall' enorme vivacità intellettuale (dimostrata anche attraverso le centinaia di lettere che ha scritto e le decine e decine di faccende di cui si è occupato, non ultimo lo schierarsi a favore di Dreyfus), un uomo dalla fisionomia (a differenza del quadro) più marcata, se vogliamo anche più virile (se questa fosse una componente fondamentale). Ho visto in quelle fotografie un Proust che "viveva" il suo tempo, sé stesso, gli altri.

L' ho guardato fisso in quegli stralci di vita e mi sono chiesta...ma Marcel è stato felice? Sono tante le domande che vengono in mente leggendo la sua Opera o anche semplicemente venendo a conoscenza delle vicende della sua vita. Il sughero che lo ha separato dal mondo fino alla fine era stato eretto a parete contro il nocivo "rumore" esterno in un impeto di pura asocialità o non è forse il muro dietro a cui capita un po' a tutti di rifugiarsi, quel duro "muro del pianto" , quella solitudine di cui non si può fare a meno se si sceglie di capire se stessi...?

Ma qui rischio di cadere nella filosofia spicciola, mentre ciò su cui vorrei concentrarmi è Marcel Proust e ciò che di speciale ha dipinto la mia mente entrando in contatto con lui.

Marcel Proust si è dedicato alla Recherche con totalità, in essa ha messo tutto se stesso, anima e capacità percettiva. Da molti ho sentito considerare lo stile proustiano un mero esercizio di stile puramente autocelebrativo... Ma come si può pensare questo vedendo i suoi quaderni pieni di correzioni, di aggiunte, di pagine incollate attorno quasi a formare la corolla di un fiore (un suo amico le chiamò "paperoles")?

Ho visto con i miei occhi fogli e fogli ingialliti e vergati dalla sua elegante calligrafia attaccati gli uni agli altri a coprire errori, ad estendere concetti, a mettere a punto la Ricerca di un Tempo perduto... infine "retrouvé"..

Ma cosa aveva poi ritrovato Proust alla fine della Recherche lì in quel letto, da solo con la sua Céleste, allo stremo delle forze e con la barba lunga? Di lui sappiamo solo che ha cercato di descrivere tutti i volti dell' umanità e che ha voluto fare della memoria del passato un "intermittenza del cuore", del presente. Il fascino che il trascorso ha avuto su di lui è stato lo sprone per proiettare l'umano all'infinito, per cogliere senza tralasciare nulla.

Sapete? Mi sento un po' idiota in questo momento. Perché non sono nemmeno un' "addetta ai lavori" eppure mi accorgo che più scrivo e più avrei da scrivere. Tutto sommato lui stesso ha mille facce da scoprire, come ce le abbiamo tutti. Ci si può sprecare a definirlo "cubista della letteratura", "temerario della sintassi", "precursore letterario della concezione bergsoniana del tempo"... ma da semplice lettrice ciò che posso dire viene da dentro. E Proust ha messo a nudo molto di me ed ha saputo descrivere sapientemente ciò che è la semplice "durata" di ogni umano vivere, di ogni gesto, di ogni emozione. Marcel Proust è una persona che ha sofferto, che ha amato. E grazie alla sua straordinaria sensibilità è stato in grado di universalizzare la sua percezione e di farne un' enorme "cattedrale" dentro la quale ancor oggi è possibile entrare.

Ho lasciato la mostra con un'immagine tristissima nel cuore: una fotografia scattatagli da Man Ray sul suo letto di morte.

foto Man Ray


Ha le occhiaie marcate, i capelli lunghi e la barba incolta. La sua sofferenza è visibile e mi ha fatto un po' male.

Il mio viaggio attraverso l'opera proustiana è appena all'inizio e so già che ciò che troverò sarà ancora tantissimo.

Avrei voluto essere Céleste Albaret.
Un saluto.

(Febbraio 2000)



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1998


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