La prima pagina di "Proust antiebreo" di Alessandro Piperno



1. Un nuovo Inferno

1. Il conforto di sapere che tutti invecchiano male

La pietà di Proust è un raggiro o un pretesto, alleata subdola dell'ovatta dello stile, del pertinace incanto melanconico, il tono suadentemente imperturbato alla Anatole France. Ma la verità è altrove, debitamente assottigliata tra le pieghe d'una rabbia implacabile, ammutolente, che non ha il conforto né di defluire, né di deflagrare spumeggiante.
In quel salotto Guermantes, dove convergono i sentieri della Recherche in un sanguinoso ecumenismo infernale, dove - correndo a un'espressione pertinente - si radunano i Sommersi e i Salvati, non c'è alcuna compassione, e in un certo modo neppure intrasigenza.
Si percepisce, semmai, l'ignobile orchestrazione d'un Sade novello che adora gli esperimenti sulla carne e del sangue, che fa uso indiscriminato di bisturi e spada. Questa rabbia non ha genesi, non può essere storicizzata: non è un prodotto adulterato, né emulo della tradizione. Neppure Baudelaire conobbe il talento dell'impassibilità di fronte al dramma della vecchiaia e della morte: fu tentato dall'indulgenza, fino agli abissi simpatetici (pietà per serve, cigni, vecchiette, prostitute, impiccati...). Proust (o quel suo emissario mascherato, defraudato d'ogni personalità ch'è il Narratore) è incapace di commiserare. Ogni morte viene registrata, cumulata in questo freddo catasto di disgregazione, mai compianta. Sembra che il Narratore condivida la smemoratezza dei suoi personaggi più abietti, quelli che sembrano fedeli ai genitori, alle donne, agli uomini, per poi, non appena defunti, sbarazzarsene sacrificandoli sull'altare dell'Oblio.

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© Franco Angeli Editore
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1998