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Guido Carrai

IL MANTELLO DI FORTUNY.
Le creazioni del "Mago di Venezia" nell'universo proustiano



Guido Carrai, laureato in architettura con una tesi su Mariano Fortuny ed appassionato slavista, svolge attualmente attività di ricerca presso la cattedra di Restauro Monumenti del Dipartimento del Restauro e Conservazione dei Beni Culturali della Facoltà di Architettura di Firenze.

Ciò che segue è lo stralcio di un articolo pubblicato in MCM La storia delle cose, 1993, 19, pp. 22-24 in occasione di una mostra tenutasi nella cittadina francese di Chartres dal titolo Proust et les Peintres, ovvero sui rapporti dello scrittore francese con i pittori e più in generale con l'arte del suo tempo.


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Già quarantanni fà in un libretto pubblicato dall'editore Barbera di Firenze e ormai dimenticato, Titta Del Valle, docente del Liceo Ginnasio Dante, ponendo l'accento sulla disinvoltura con la quale Marcel Proust si muove nel "regno segreto" della trasposizione, aveva auspicato di poter redigere un repertorio completo delle opere d'arte che si riflettono nel grande ciclo della Recherche.

L'attualità dell'argomento si presenta a noi come una ghiotta occasione per approfondire alcuni riferimenti incidentali, apparsi su questa rivista in alcuni articoli circa la figura di Mariano Fortuny y Madrazo (Granada 1871 - Venezia 1949), il cui nome è da sempre inscindibilmente legato alla produzione di tessuti stampati e alla creazione di quegli abiti originali che proprio Proust - non a caso il Mago di Venezia è l'unico artista vivente evocato nelle sue pagine - ha consacrato al ruolo di latori dello spirito del suo tempo.

Coniata da Théophile Gautier, travasata da Baudelaire nel simbolismo, l'idea che il mondo è una foresta di simboli la rivelazione dei quali ci è data dalla poesia, alimenta la tendenza a cogliere o inventare trapassi da un'ordine all'altro delle cose, dal mondo delle apparenze a quello di nascoste forze interiori. In seno ad ognuno dei due mondi tali trapassi sono ricavati dall'intelligenza del critico o dalla simpatia dell'osservatore, secondo una forma mentis analoga a quella dell'allegorismo medioevale. Le figure e i segni dell'arte, insomma, non si possono animare con l'enfasi e la precisione meccanica e slegata dell'osservazione se una fantasia unificatrice non attribuisce loro una peculiare necessità d'essere.

Ecco che Proust, il quale amava leggere: "il muto linguaggio degli abiti come elemento delle evocazioni di una società decaduta" sceglie le creazioni di Fortuny e le pone al centro di alcuni episodi che hanno Albertine, la donna amata dal narratore, come protagonista e legano il V e il VI libro dell'opera, "La Prigioniera" a "La fuggitiva".

Si tratta di una serie di riferimenti che, apparentemente casuali e sganciati l'uno dall'altro, finiscono per costituire un vero e proprio fulcro narrativo, in grado di inferire concretezza al romanzo complicandone e rafforzandone la struttura, e che lo stesso scrittore francese chiama "Leitmotiv Fortuny".

Alla prima citazione Proust accompagna una digressione, che ha il tono di una presentazione: "Tra tutte le vesti o vestaglie della signora di Guermantes, quelle che mi sembravano più rispondenti a un'intenzione determinata, e dotate di uno speciale significato, erano quelle fatte da Fortuny su antichi disegni veneziani. È forse il loro carattere storico, o piuttosto il fatto che ciascuna è unica, a dar loro un carattere così singolare che l'atteggiamento della donna che le indossa, mentre ci aspetta o parla con noi, acquista un'importanza straordinaria, come se quel vestito rappresentasse il frutto d'una lunga deliberazione e se quella conversazione si distaccasse dalla vita ordinaria come una scena di romanzo.(...) Nulla di vago può restare nella descrizione del romanziere, giacché quel vestito esiste realmente, e i suoi menomi disegni sono altrettanto naturalmente precisi di quelli di un'opera d'arte. Prima di indossarne uno, la donna ha dovuto scegliere tra due vestiti, tutt'altro che simili, ciascuno dei quali è anzi profondamente individuale e potrebbe portare un nome."

Trecentocinquanta pagine "più tardi", non appena Proust associa Fortuny ad Albertine, il motivo conduttore sviluppa tutta la sua funzione "di volta in volta sensuale, poetica e dolorosa": e, via via, trasforma le fantasticherie del narratore su Venezia in un gioco complesso di presentimenti e corrispondances.

È una trama tutta intessuta sui particolari, che, in un primo momento, ha per cardine la vestaglia blu e oro di Albertine. Tramite quella stoffa evanescente di un'azzurro cangiante goffrato di eleganti arabeschi orientali che schiudono agli occhi del Narratore, prigioniero della propria ossessiva gelosia, illusorie prospettive veneziane, si compie, un "miracolo analogico" che forse solo il Visconti di "Morte a Venezia" avrebbe saputo visualizzare con altrettanta efficacia.

La vestaglia, simbolo della prigionia di Albertine si dissolve cinematograficamente in un caleidoscopio di immagini della città lagunare e riflette come uno specchio profetico, anticipandolo, il soggiorno del Narratore a Venezia quando Albertine non esisterà più e solo le coppie di uccelli, simbolo di morte e resurrezione, emigrate dai capitelli bizantini alla vestaglia blu e oro di Fortuny, continueranno ad alludere a un tempo al destino di Albertine e al significato generale dell'intera Recherche.

"La morale comune - aveva scritto Hugo von Hoffmannsthal nel 1893 - viene oscurata da due impulsi: da quello verso l'esperimento e da quello verso la bellezza, dall'im-pulso verso il conoscere e verso il dimenticare".

Se ne "La Prigioniera" il Narratore vuole conoscere Venezia, ne "La Fuggitiva" vuole dimenticare la donna troppo amata, cancellare soprattutto il ricordo doloroso dell'ultima passeggiata fatta insieme a Versailles, prima della fuga e della morte di lei. Per quell'occasione Albertine era stata indecisa tra due mantelli di Fortuny: "Esitò un poco, come tra due amici da condurre con sé - poi - ne scelse uno blu scuro, stupendo". Il particolare rimane in secondo piano finché, dopo un lungo periodo di dolore e senso di colpa Marcel, rimossa finalmente quell'immagine ossessiva, va a Venezia, visita le Gallerie dell'Accademia e, mentre ammira il "Miracolo della reliquia della croce", opera di Carpaccio, sente improvvisamente "al cuore come un morso leggero"

Cosa è accaduto?

"Sulle spalle di uno dei giovani della Compagnia della Calza - spiega Proust - avevo riconosciuto il mantello che Albertine aveva preso per venire con me in vettura scoperta a Versailles, quella sera in cui ero tanto lontano dal pensare che appena una quindicina d'ore mi separassero dal momento in cui sareb-be partita da casa mia. Sempre pronta a tutto, quando le avevo chiesto di uscire (...) s'era gettata sulle spalle un mantello di Fortuny che il giorno seguente aveva portato con sé e che poi nei miei ricordi non avevo più riveduto. Da quel quadro di Carpaccio, dunque lo aveva preso quel geniale figlio di Venezia; lo aveva staccato dalle spalle del giovine della Compagnia della Calza (...). Avevo riconosciuto tutto e, quel mantello dimenticato avendomi restituito, perché lo guardassi gli occhi e il cuore di colui che quella sera stava per dirigersi verso Versailles con Albertine, fui per qualche momento invaso da un sentimento inquieto, e presto dileguato, di desiderio e di melanconia".



Di colpo, complice la mémoire involontaire, il lento lavoro consolatore dell'oblio è distrutto; improvvisamente davanti agli occhi del narratore come a quelli del lettore, l'opera d'arte materializza l'immagine di Albertine : "morte désormais mais extraordinairement vivante dans les plis mouvants de la superbe étoffe qu'el-le habite", tanto tangibile interiormente quanto irrimediabilmente perduta.

Ma non è tutto: guardando da vicino il quadro di Carpaccio si scopre che, di giovanotti di spalle in primo piano, ce ne sono tre, due di essi indossano mantelli, uno rosso e l'altro blu scuro: è questo, dunque, il mantello cui Proust vuole alludere. La cosa davvero singolare è che sul cappuccio di questo mantello bluastro è ricamata una sirena a doppia coda, sovrastata da un cartiglio, sul quale si leggono due parole: "Con tempo". Dunque: se questo è il mantello di Albertine, allora la parola tempo, chiave di volta di tutto l'universo proustiano, è iscritta sulle spalle di quella sventurata prigioniera, già condannata a morte, la quale poche pagine prima era stata dallo scrittore definita "grande divinità del Tempo"

Albertine come la sirena: essere anfibio incontrata sulla spiaggia di Balbec poi sempre associata a metafore marine, è metafora essa stessa di una interpretazione del "femminile", quella di Proust, che verte sull'immagine della donna sessualmente ambivalente e sensualmente ambigua.

Oggetto d'arte, totem e "macchina desiderante", l'abito supporta l'infinita kermesse di simboli che anima il sottile gioco della trasposizione, e la grandezza di Proust riflette la grandezza di Fortuny. Attraverso le mura di Palazzo Orfei, la residenza-atelier dell'artista-mago di Venezia, come in un processo osmotico, nel corso dei primi anni del '900, filtrano le migliori "frasi" di uno stile, che poi è quello di van de Velde o di Poiret, si tratta di una serie di istanze formali comunque perfettibili; Mariano le rende perfette per restituirle alla cultura del suo tempo con la "sua" grande arte che è poi: "semplicemente l'arte che esige l'impegno di tutte le facoltà di un uomo le cui opere sono tali da invocare tutte le facoltà di un altro uomo interessato a comprenderle".

(Marzo 2005)


immagineAltre pagine su Mariano Fortuny e il mantello di Albertine




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