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Gabriella Alù
IL LABIRINTO DEL CASTELLO. Simbolismo e istituzione ne "Il Castello" di Franz Kafka |
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Milan Kundera trova sbagliato interpretare i romanzi di Kafka come una parabola religiosa ma, secondo lui, questa interpretazione è comunque rivelatrice: "dovunque il potere si deifichi, esso produce automaticamente la propria teologia: dovunque si
comporti come Dio, suscita nei propri confronti sentimenti religiosi; il mondo può essere descritto con un linguaggio teologico" (1)
Quando si parla di organizzazione, ne "II Castello" viene fatto sempre riferimento all "amministrazione". Sarebbe però estremamente riduttivo, a mio modo di vedere, cogliere nella modalità di essere di questa amministrazione soltanto la descrizione di un modello di funzionamento organizzativo di tipo burocratico. Perché è l'Istituzione in quanto tale, infatti, che, ne "II Castello" viene ad essere posta in questione e la burocrazia, con tutti i suoi labirinti di norme, carte, ruoli, funzioni non è che lo "strumento" poetico utilizzato per rappresentarla. Questo Castello di carte, che sussurra, bisbiglia, fruscia; guarda per spiare e controllare, che assume a volte tratti antropomorfici (2), che è onnipresente, onnipotente, onniscente ed inconoscibile, infallibile (l'errore è un tabu, l'infallibilità il dogma); "indicibile" (non si può pronunciare il nome di Klamm, del Conte non si può nemmeno parlare; questo Castello che non è guardabile (3) ha tutti gli attributi di Dio. Ma la sacralità è la caratteristica della fantasmatica relativa ad ogni istituzione in quanto tale. Scrive Kaës: "Per l'inconscio, l'istituzione si iscrive nello spazio del sacro (...). L'origine divina dell'istituzione le assicura potenza, legittimità, permanenza assoluta. L'istituzione è diritto divino ". (4) Ecco allora "II Castello" come grandiosa metafora dell'Istituzione e di ciò che può significare, per l'individuo, non esserne partecipe. Il paradosso di K. è proprio questo: più egli guarda verso l'alto, più viene ricacciato in basso, gli si ricorda che è un terrestre, un lombrico, lo si pone continuamente di fronte all' ineluttabile pesantezza dell'essere. Lette in un ottica istituzionale, le contraddizioni del funzionamento del mondo del Castello acquistano un senso. Diventa comprensibile che nessuna sappia (possa) indicare come si ottiene il permesso per entrare nel Castello, così come diventa comprensibile la costante mancanza di certezza circa l'essere o meno al servizio del Castello e quindi di appartenervi ufficialmente. Le modalità di assunzione, che lette in un'ottica meramente organizzativa appaiono farraginose ed oscure, che non garantiscono mai all'interessato alcuna sorta di una qualche "certezza del diritto", appaiono persino ovvie se le riferiamo alla dimensione istituzionale: condividere un immaginario sociale, un sistema istituzionale non è cosa che possa essere acquisita con un atto, un gesto formale. L'assenza di un passato individuale ed il richiamo alla tradizione a livello collettivo rimanda ad origini mitologiche; il mito, il "si dice" tengono il posto della storia. K. stesso è, d'altra parte, chiuso nella pura attualità del presente, senza memoria del passato e senza proiezione nel futuro: non ha nè un passato da riprendere, nè un futuro su cui proiettarsi: è "raggrinzito nel puro presente". Non è possibile individuare i luoghi ed i livelli del potere perché l'istituzione è inafferrabile e non la si può costituire come oggetto di pensiero. L'istituzione ha memoria per i suoi miti ed i rituali che la sostengono, ma essa, come Klamm, "dimentica", non si cura dei destini individuali. Sembra che, paradossalmente, solo del "forestiero" K. il Castello si ricordi e si occupi, ma con l'attenzione sorniona del funzionario Galater che ha mandato a K. Arthur e Jeremias come assistenti dicendo loro: "essenziale è che lo teniate un pò allegro. È arrivato adesso in paese e gli sembra sia un avvenimento straordinario, mentre invece è una cosa da niente. Dovete farglielo capire ". Il Castello è un Walhalla di Dei non più guerrieri e privo anche di eroi, siano essi sapienti e sensuali come Edipo o innocenti e casti come Parsifal. Ci sono solo i burocrati, che respingono K. non con le armi o con la violenza fisica ma semplicemente con l'indifferenza e con il non accoglimento del suo desiderio integrazione. Un Walhalla diroccato e pieno di cornacchie, i cui messaggeri vanno in giro con le vesti rattoppate ed in cui gli Dei passano il tempo libero alla mescita di un' osteria bevendo birra invece che nettare. Un Wahlalla che non punisce, non perdona e non condanna perchè non riconosce l'esistenza di una colpa. Come è stato rilevato da Citati, ne "II Castello", a differenza del "Processo", manca persino la condanna, che era ancora l'ultimo legame che l'istituzione manteneva con l'uomo. Questi non può essere più nemmeno sicuro di essere stato punito, non ha più nemmeno la certezza della colpa, il diritto al riconoscimento della colpa. Se questo Wahlalla sembra potente in una situazione crepuscolare è perché questa chiusura porta all'entropia; il Castello appare un'istituzione senza conflitti apparenti e priva di spazio per il desiderio. Un' istituzione mortifera che si struttura sulla ripetitività e sulla elefantiasi della sua burocrazia (molteplicità di norme, fuga dalle responsabilità mediante il proliferare di regolamenti e verbali etc.). Nella dinamica tra istituente ed istituito, K. rappresenta l'istituente che viene schiacciato dall' istituito del Castello con un meccanismo di isolamento e di emarginazione sempre più forte che nega la possibilità di una identità sociale e quindi di una identità personale. Il suo spazio psichico si assottiglia per il prevalere dell'istituito sull'istituente, con la massiccia presenza burocratica dell' organizzazione a scapito dei processi, con la supremazia delle formazioni repressive e di diniego. (5). Viene quindi confinato in una alterità totale che lo mette di fronte al baratro dell'impotenza. K. "nasce" al villaggio del Castello chiuso nella sua individualità. L'Istituzione è chiusa, e respinge il corpo estraneo. L'Istituzione non accetta chi si pone come auto-generato e non facente parte della catena della storia e della memoria collettiva. L'Altro è allora lo straniero (6). K. soccombe perchè non riesce ad essere "attraversato" dal sociale; l'impotenza sociale e la perdita di identità vanno sempre più intrecciandosi; K. è sempre più sottoposto ad un processo di degradazione psichica di cui la stanchezza fisica crescente - della quale si stupisce essendo un uomo giovane, sano e robusto - non è che il simbolo: K. è sempre più stanco, nota che anche gli altri sono sempre stanchi, ma la loro è "la stanchezza dell'operosità felice"'. Quella che in loro sembra stanchezza è in realtà quiete, pace indistruttibile. La stanchezza soddisfatta di chi è in accordo con sè stesso e con il mondo in cui è inserito. Per lui, come per Pepi, "quello che stanca è l'attesa, la delusione". ![]() (1) M: KUNDERA, Op.cit. (2) A K. appare anche come "una persona tranquillamente seduta, con lo sguardo rivolto davanti a sè..." (3) "Gli sguardi dell'osservatore non possono fermarsi sul Castello, scivolano via..." (4) R. Kaës "Realtà psichica e sofferenza nelle istituzioni" in "L'istituzione e le istituzioni", AA.VV., Boria 1991 (5) R. KAËS, op. cit. (6) "Uno straniero che deve giungere a collocarsi da sé in un mondo ostile ed indifferente può diventare oggetto di odio o di disprezzo da parte di tutti coloro che vivono nella certezza e non nel torbido del pensiero..." (Toqueville citato da Enriquez in : "Vers la fin de l'interiorité?" in "Psychologie clinique", 1989/2) |