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Andrea Pagani

JOYCE, PROUST E ...
I TARTUFI



Il testo di questo articolo è stato pubblicato nella rivista CARTAPESTA il 7 giugno 2002

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Non è troppo frequente che due scrittori di genio riescano ad apprezzarsi reciprocamente. Si potrebbero trovare molte spiegazioni a questo fenomeno. Qualche studioso di letteratura, non esente da nozioni di psicologia, ha ipotizzato una sorta di bisogno di autodifesa: se uno dei due fosse preso dalla grandezza dell’altro – ha scritto George Painter - rischierebbe di contaminare la propria. O forse è semplicemente per il fatto che uno scrittore ha una propria estetica, una personale radicata concezione della letteratura e del mondo, con cui interpreta e valuta – forse erroneamente - le opere dei propri colleghi.

È ciò che capita a due grandi del Novecento, come Marcel Proust e James Joyce.

Se, in effetti, sono più o meno note le circostanze bizzarre (e quasi comiche) della loro breve conoscenza, assai meno conosciuti – almeno in Italia – sono i giudizi che l’uno espresse sul capolavoro dell’altro.

Partiamo dal curioso aneddoto biografico, per poi passare ad un rapido scorcio dei testi.

Parigi, 18 maggio 1922. Il romanziere inglese Sydney Schiff, dopo la prima del Renard di Stravinsky, organizzò una grandiosa serata in onore dei quattro uomini di genio che più ammirava e che risiedevano nella capitale: Stravinsky, appunto, Picasso, Proust e Joyce.

L’autore dell’Ulysses (appena stampato per i tipi della parigina Shakespeare and Company) arrivò a mezzanotte, già stanco, vestito male, scusandosi per l’abito che indossava (“in questo momento – spiegò – non possiedo abiti da sera”); si mise a sedere, tetro e isolato, la testa fra le mani, bevendo smodatamente champagne. Poco dopo arrivò Proust (che allora aveva pubblicato i primi quattro volumi della Recherche), pieno di acciacchi (sarebbe morto di polmonite il successivo 18 novembre), in soprabito con pelliccia. A quel punto gli Schiff passarono alla presentazione dei due romanzieri. Ci sono varie versioni su ciò che si dissero. È certo che si parlarono pochissimo. Nessuno dei due – è bene chiarire - aveva letto il capolavoro dell’altro, pur conoscendosi di fama, e ben presto la conversazione scivolò su temi convenzionali: Joyce si lamentò dalla sua terribile emicrania e del dolore agli occhi; Proust raccontò dei suoi bruciori di stomaco; infine confessarono entrambi la predilezione per i tartufi...

Per la verità, è un po’ deludente pensare che due fra i più grandi romanzieri del XX secolo ebbero occasione di incontrarsi e che parlarono di tartufi. Ma del resto (e passiamo così ai giudizi letterari), qualche tempo dopo, quando Proust era già morto e Joyce lesse qualche pagina della Recherche, l’autore irlandese in una conversazione con Arthur Power, ricordando la circostanza del loro incontro, pur ammettendo un certo rammarico per non aver parlato di letteratura, osservò anche che fra loro difficilmente poteva trovarsi una sintonia: “non v’è alcuna affinità fra le nostre opere – confessò in termini perentori -; certo Proust è un raffinato psicologo, ma il suo stile mi lascia indifferente, il lettore finisce la frase prima di lui. Io penso – prosegue Joyce - che avrebbe fatto meglio a continuare a scrivere come all'inizio, perché ricordo di aver letto una volta alcuni brevi racconti in un libro intitolato Les plaisirs et le jours, studi della società parigina del '900, che mi impressionò molto. Se avesse continuato a scrivere in quel modo, penso avrebbe prodotto le migliori novelle della nostra generazione. Invece, si è lanciato nella Recherche du temps perdu, che soffre di iper-elaborazione...”.

Con ogni probabilità nel severo giudizio che Joyce espresse su Proust c’è molto della propria concezione letteraria: uno scrittore che ama il ritmo incalzante, le frasi brevi, l’inesauribile sperimentalismo stilistico, non può certo ammirare l’omogeneità e la rigorosa compattezza della sintassi proustiana, un certo ricorso alla tradizione, la costruzione ampia e laboriosa. E, al tempo stesso, la predilezione per i giovanili racconti proustiani, “studi sulla società parigina”, tradiscono le proprie intenzioni letterarie, perseguite con i Dubliners, “epicleti, ovvero espansioni di epifanie”, in cui Joyce volle offrirci un vasto ed organico quadro sociale dublinese, con un impianto ideologico ben definito.

Ecco perché qualche volta un autore non è un critico imparziale (del resto, l’intelligenza di Joyce era così fine, che fu lui stesso a rendersene conto, quando ammise “non riesco a vedere in Proust un talento speciale, ma io sono un cattivo critico”).

E – viene da chiedersi – chissà se le allusioni al nome di Proust e alla Recherche che lo scrittore irlandese disseminò nel suo ultimo difficilissimo libro, Finnegans Wake, non sono un estremo omaggio ad un capolavoro che, in prima battuta, non aveva saputo apprezzare...

in "Cartapesta", 7 giugno 2002

Dicembre 2002


Altre pagine sul rapporto tra i due scrittori :




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